Capitolo ottavo
Era da poco calata la sera: in casa di don Abbondio regnava il silenzio. Don Abbondio, costretto a rimanere in casa per far credere a tutti che fosse veramente malato, stava sfogliando un libro e si era fermato leggendo il nome di un antico filosofo greco, Carneade, che gli era sconosciuto.
“Carneade! Chi era costui?” ruminava [pensava] tra sè don Abbondio seduto sul suo seggiolone, in una stanza del piano superiore, con un libricciolo [con un piccolo libro] aperto davanti, quando Perpetua entrò a portargli l’imbasciata [la notizia che Tonio voleva essere ricevuto per restituire il suo debito]. “Carneade! questo nome mi par bene d’averlo letto o sentito; doveva essere un uomo di studio, un letteratone del tempo antico: è un nome di quelli; ma chi diavolo era costui?”. Tanto il pover’uomo era lontano da prevedere che burrasca gli si addensasse sul capo [che cosa stava per succedere]!
Quando Perpetua venne a riferirgli della venuta di Tonio, don Abbondio fu ben felice di riceverlo, per riavere i suoi denari. Perpetua andò allora ad aprire la porta ed ebbe la sorpresa di trovarsi davanti Agnese, la quale faceva finta di essere lì di passaggio; Perpetua allora la salutò chiedendole come mai si trovasse lì a quell’ora. La madre di Lucia, abilmente, riuscì a distrarre Perpetua parlandole di una presunta conversazione avvenuta quel giorno e che aveva come oggetto due matrimoni falliti della stessa Perpetua. La governante di don Abbondio cadde nel tranello e si allontanò di qualche metro dalla casa del curato, lasciando la porta aperta. A quel punto Agnese tossì forte: era il segnale concordato con Renzo e Lucia per far capir loro che la strada era libera per entrare, non visti, nella casa del parroco.
– Buona sera, Agnese, – disse Perpetua: – di dove si viene, a quest’ora?
– Vengo da… – e nominò un paesetto vicino. – E se sapeste… – continuò: – mi son fermata di più, appunto in grazia vostra [a causa vostra].
– Oh perché? – domandò Perpetua; e voltandosi a’ due fratelli, – entrate, – disse, – che vengo anch’io.
– Perché, – rispose Agnese, – una donna di quelle che non sanno le cose, e voglion parlare… credereste? s’ostinava a dire che voi non vi siete maritata con Beppe Suolavecchia, né con Anselmo Lunghigna, perché non v’hanno voluta. Io sostenevo che siete stata voi che gli avete rifiutati, l’uno e l’altro…
– Sicuro. Oh la bugiarda! la bugiardona! Chi è costei?
– Non me lo domandate, che non mi piace metter male.
– Me lo direte, me l’avete a dire: oh la bugiarda!
– Basta… ma non potete credere quanto mi sia dispiaciuto di non saper bene tutta la storia, per confonder colei [dimostrarle che sbagliava].
– Guardate se si può inventare, a questo modo! – esclamò di nuovo Perpetua; e riprese subito: – in quanto a Beppe, tutti sanno, e hanno potuto vedere… Ehi, Tonio! accostate l’uscio, e salite pure, che vengo -. Tonio, di dentro, rispose di sì; e Perpetua continuò la sua narrazione appassionata.
In faccia all’uscio di don Abbondio, s’apriva, tra due casipole [tra due piccole case], una stradetta, che, finite quelle, voltava in un campo. Agnese vi s’avviò, come se volesse tirarsi alquanto in disparte, per parlar più liberamente; e Perpetua dietro. Quand’ebbero voltato, e furono in luogo, donde non si poteva più veder ciò che accadesse davanti alla casa di don Abbondio, Agnese tossì forte. Era il segnale: Renzo lo sentì, fece coraggio a Lucia, con una stretta di braccio; e tutt’e due, in punta di piedi, vennero avanti, rasentando il muro, zitti zitti; arrivarono all’uscio, lo spinsero adagino adagino; cheti e chinati, entraron nell’andito[nell’ingresso], dov’erano i due fratelli ad aspettarli. Renzo accostò di nuovo l’uscio pian piano; e tutt’e quattro su per le scale, non facendo rumore neppur per uno [facendo meno rumore di quanto avrebbe potuto fare una persona sola].
Tutto sembrava dunque procedere secondo il piano prestabilito. Tonio e suo fratello Gervaso entrarono nella stanza di don Abbondio e, mentre questo stava scrivendo la ricevuta per il debito riscosso, anche Renzo e Lucia fecero silenziosamente il loro ingresso nella stanza, nascondendosi dietro i due fratelli. Non appena don Abbondio, finita di scrivere la ricevuta, rialzò il capo, Tonio e Gervaso si spostarono di lato e sbucarono i due promessi sposi. Renzo pronunciò rapidamente la formula matrimoniale (“Signor curato, in presenza di testimoni, questa è mia moglie”), ma, mentre Lucia lo stava imitando, don Abbondio afferrò il tappeto che copriva il tavolino e lo buttò sul capo di Lucia, poi si affacciò ad una finestra e cominciò a gridare chiedendo aiuto.
– Bene bene, – interruppe don Abbondio, e brontolando, tirò a sé una cassetta [un cassetto] del tavolino, levò [cacciò] fuori carta, penna e calamaio, e si mise a scrivere, ripetendo a viva voce le parole, di mano in mano che gli uscivan dalla penna. Frattanto Tonio e, a un suo cenno, Gervaso, si piantaron ritti davanti al tavolino, in maniera d’impedire allo scrivente la vista dell’uscio; e, come per ozio, andavano stropicciando, co’ piedi, il pavimento [strusciavano i piedi sul pavimento], per dar segno a quei ch’erano fuori, d’entrare, e per confondere nello stesso tempo il rumore delle loro pedate [dei loro passi]. Don Abbondio, immerso nella sua scrittura, non badava ad altro. Allo stropiccìo de’ quattro piedi, Renzo prese un braccio di Lucia, lo strinse, per darle coraggio, e si mosse, tirandosela dietro tutta tremante, che da sé non vi sarebbe potuta venire. Entraron pian piano, in punta di piedi, rattenendo [trattenendo] il respiro; e si nascosero dietro i due fratelli. Intanto don Abbondio, finito di scrivere, rilesse attentamente, senza alzar gli occhi dalla carta; la piegò in quattro, dicendo: – ora, sarete contento? – e, levatosi con una mano gli occhiali dal naso, la porse con l’altra a Tonio, alzando il viso. Tonio, allungando la mano per prender la carta, si ritirò da una parte; Gervaso, a un suo cenno, dall’altra; e, nel mezzo, come al dividersi d’una scena [come all’aprirsi di un palcoscenico], apparvero Renzo e Lucia. Don Abbondio, vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, s’infuriò, pensò, prese una risoluzione [una decisione]: tutto questo nel tempo che Renzo mise a proferire [impiegò per pronunciare] le parole: – signor curato, in presenza di questi testimoni, quest’è mia moglie -. Le sue labbra non erano ancora tornate al posto, che don Abbondio, lasciando cader la carta, aveva già afferrata e alzata, con la mancina[con la mano sinistra], la lucerna, ghermito [preso], con la diritta [con la mano destra], il tappeto del tavolino, e tiratolo a sé, con furia, buttando in terra libro, carta, calamaio e polverino [un vasetto dal coperchio bucherellato, contenente sabbia o segatura finissima, usata per asciugare l’inchiostro fresco]; e, balzando tra la seggiola e il tavolino, s’era avvicinato a Lucia. La poveretta, con quella sua voce soave, e allora tutta tremante, aveva appena potuto proferire: – e questo… – che don Abbondio le aveva buttato sgarbatamente il tappeto sulla testa e sul viso, per impedirle di pronunziare intera la formola [la formula matrimoniale]. E subito, lasciata cader la lucerna che teneva nell’altra mano, s’aiutò anche con quella a imbacuccarla [a coprirla] col tappeto, che quasi la soffogava; e intanto gridava quanto n’aveva in canna [con tutto il fiato che aveva in gola]: – Perpetua! Perpetua! tradimento! aiuto!
Alle grida di don Abbondio, il sagrestano, Ambrogio, balzò giù dal letto dove era coricato e cominciò a suonare le campane della chiesa. Era il segnale che qualcosa di grave stava succedendo e molti uomini del paese corsero, armati di forconi e zappe, verso la chiesa per capire cosa fosse successo. Accorse anche Perpetua, mentre Renzo e Lucia scapparono all’aperto e corsero via con Agnese.
Ma anche i bravi di don Rodrigo furono spaventati dal rintocco delle campane. Essi, infatti, erano penetrati nella casa di Lucia per rapirla, ma avevano trovato l’abitazione vuota. Mentre si chiedevano i motivi di questa misteriosa scomparsa di Lucia e della madre, arrivò all’uscio di casa il piccolo Menico, che veniva da parte di fra’ Cristoforo ad avvisare le due donne di raggiungere subito il convento.
I bravi afferrarono il piccolo Menico, minacciandolo con un coltello, quando si udirono all’improvviso i rintocchi delle campane. Spaventati, convinti di essere stati scoperti, i bravi abbandonarono il ragazzo e la casa dandosi alla fuga. Anche Menico scappò dalla casa, incontrando per la strada Renzo, Lucia ed Agnese, ai quali raccontò tutto quello che gli era accaduto e l’avvertimento di padre Cristoforo di rifugiarsi subito nel convento.
I tre decisero così di raggiungere il convento di padre Cristoforo. Lì giunti, il buon frate li invitò ad abbandonare il paese, egli aveva già predisposto le cose: Lucia si sarebbe recata con la madre al convento di Monza, Renzo ad un monastero di Milano.
– Dopo di ciò, – continuò egli, [è fra’ Cristoforo che sta parlando] – vedete bene, figliuoli, che ora questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così. È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade. Io ho pensato a trovarvi un rifugio, per questi primi momenti. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra; a ogni modo, Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati [perseguitati]. Voi, – continuò volgendosi alle due donne, – potrete fermarvi a *** [come succede anche in altre parti del romanzo, Manzoni evita di citare alcuni nomi di persone e di luoghi, sostituendoli con degli asterischi]. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo, e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra. Cercate del nostro convento, fate chiamare il padre guardiano [il priore], dategli questa lettera: sarà per voi un altro fra Cristoforo. E anche tu, il mio Renzo, anche tu devi metterti, per ora, in salvo dalla rabbia degli altri, e dalla tua. Porta questa lettera al padre Bonaventura da Lodi, nel nostro convento di Porta Orientale in Milano. Egli ti farà da padre, ti guiderà, ti troverà del lavoro, per fin che [sino a che] tu non possa tornare a viver qui tranquillamente. Andate alla riva del lago, vicino allo sbocco del Bione -. È un torrente a pochi passi da Pescarenico. – Lì vedrete un battello fermo; direte: barca; vi sarà domandato per chi; risponderete: san Francesco. La barca vi riceverà, vi trasporterà all’altra riva, dove troverete un baroccio [un carro] che vi condurrà addirittura [direttamente] fino a ***.
Dopo aver salutato commossi padre Cristoforo, i promessi sposi ed Agnese raggiunsero le rive del lago, e salirono nella barca predisposta dal frate per la fuga. A bordo della barca tutti restavano in silenzio guardando man mano allontanarsi i luoghi natii. Lucia poggiò il braccio sulla sponda della barca e chinò sul braccio la fronte facendo finta di dormire: in realtà piangeva per essere stata costretta ad abbandonare la propria casa e il proprio paese.
I passeggieri silenziosi, con la testa voltata indietro, guardavano i monti, e il paese rischiarato dalla luna, e variato qua e là di grand’ombre [con zone più scure, dove si proiettavano le ombre dei colli]. Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne: il palazzotto di don Rodrigo, con la sua torre piatta, elevato sopra le casucce ammucchiate alla falda del promontorio, pareva un feroce che, ritto nelle tenebre, in mezzo a una compagnia d’addormentati, vegliasse, meditando un delitto. Lucia lo vide, e rabbrividì; scese con l’occhio giù giù per la china [il fianco del colle], fino al suo paesello, guardò fisso all’estremità, scoprì la sua casetta, scoprì la chioma folta del fico che sopravanzava il muro del cortile, scoprì la finestra della sua camera; e, seduta, com’era, nel fondo della barca, posò il braccio sulla sponda, posò sul braccio la fronte, come per dormire, e pianse segretamente.
Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville [gruppi di case] sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti [che pascolano]; addio! Quanto è tristo il passo di chi, cresciuto tra voi, se ne allontana!