Capitolo I – In viaggio
– Fa ancora piuttosto freddo, sebbene sia già primavera. La settimana prossima è aprile, e sembra gennaio, sembra! – pensò Don Raffaele, stropicciandosi le braccia infreddolite.
Si avviò alla finestra che dava sul cortile, aprì le imposte e diede uno sguardo intorno, come ogni mattina. Tutto era ancora avvolto nel buio notturno, ma la tenue luce che precede l’alba gli permetteva di distinguere nell’angolo il suo carretto, addossato al muro, con le stanghe che quasi arrivavano al ballatoio del piano superiore e che per metà copriva la porta, rudimentale ma robusta, della stalla, che gli serviva anche da deposito; a fianco c’era la bottega di Ernestina la carbonaia, ancora chiusa, ma per poco, perché dalle fessure trapelava un po’ di luce del lume ad olio, segno che la donna era già sveglia e pronta ad aspettare i clienti più mattinieri; subito appresso, il capanno dove zi’ Ciccio depositava i suoi attrezzi da contadino; dall’altro lato, sotto un largo arco che reggeva una ripida scala con il suo parapetto tutto sgretolato, il lavatoio e il pozzo, sul quale risaltava il bianco del secchio di alluminio che penzolava appeso alla carrucola; seguiva la piccola edicola della Madonna dell’Arco, rischiarata da vari lumini, sotto l’architrave che una volta reggeva un portone, del quale rimaneva ormai solo qualche frammento più grosso.
L’uomo guardò poi in alto: il cielo cominciava a schiarirsi; le stelle già quasi non si distinguevano più; solo poche nuvole, molto alte, assumevano pian piano un colore rosa pallido: l’alba infatti era vicina e la montagna, da cui sarebbe sorto il sole, presentava ormai ben netto il suo profilo sullo sfondo azzurrino del cielo.
– Devo svegliare la ragazza? – chiese zi’ Mariuccia, quasi a denti stretti.
Si era già alzata da un pezzo e con un ventaglio di paglia attizzava i carboni, su cui poggiava una grossa caffettiera napoletana. A tutto infatti il marito avrebbe rinunciato, ma non alla sua mattutina tazza di caffè ben forte e ben calda, anzi bollente. La beveva lentamente, a piccoli ma rumorosi sorsi, seduto di sbieco sulla sedia preferita, quella rivolta verso la finestra, poggiando il gomito sul tavolo e guardando fuori: sembrava fissare chissà cosa al di là della vetrina, ma in realtà i suoi pensieri non si scostavano molto dal lavoro che lo attendeva nella giornata che stava per iniziare.
Bevuto il caffè, si alzava di scatto e solo allora mostrava di avere tutta la fretta di questo mondo!
– Ancora? Mi chiedi ancora se devi svegliarla? – rispose con stizza don Raffaele, agitandosi tutto sulla sedia – Lo sai che mi dispiace, ma non posso fare a meno di Emma proprio oggi che devo fare anche il giro a Portici! Ne farei volentieri a meno, se potessi: mi devi credere! Ma mi dici tu chi posso portare con me, se non lei? Vorresti venire tu per caso? No! Lo vedi? E allora perché fai così? Solo per farmi infuriare, ecco perché!
– Va bene! Va bene! Non arrabbiarti: la chiamo subito! Come al solito, con te non si può nemmeno aprire bocca, che subito ti dimeni e gridi come un pazzo! – ribatté, sostenuta, zi’ Mariuccia; quindi brontolando e trascinando a fatica i suoi novanta chili e più, si avviò al divano-letto della figlia, che trovò già sveglia, destata forse dalle grida del padre.
Emma aveva poco più di 9 anni ed era molto affezionata ai genitori adottivi, che, dopo vari anni di infruttuoso matrimonio, erano riusciti, grazie anche a raccomandazioni e appoggi di chi valeva e ad innumerevoli chili di ulive regalate a destra e a manca, ad averla in adozione all’età di circa un anno.
Lei era all’oscuro di tutto; anzi, non le sarebbe mai passato per la mente che zi’ Mariuccia, sempre così piena di premura, così pronta a soddisfare ogni suo desiderio, e don Raffaele, un po’ burbero e scontroso, ma tanto caro, tanto affettuoso e dolce con lei, non fossero i suoi veri genitori. Crescendo però, soprattutto negli ultimi tempi, aveva avuto spesso la sensazione che le nascondessero qualcosa, che avessero un segreto da svelarle, ma che esitassero, come se temessero la sua reazione o non trovassero mai il momento opportuno e il coraggio necessario per parlare.
Una volta, tornando da scuola, mentre deponeva cartella e grembiule su una sedia della cucina, aveva sentito delle voci provenire dalla camera da letto: zi’ Anna diceva alla sorella che ormai la ragazza aveva l’età per capire e, senza perdere altro tempo, dovevano dirglielo, ma con calma, con tatto, con tutte le precauzioni possibili, prima che… Al suo arrivo però avevano subito cambiato discorso e le erano venute incontro tutte e due con una premura che le era sembrata un po’ eccessiva. La ragazza non aveva dato gran peso a ciò che aveva udito, anche perché la furbacchiona di zi’ Anna, accortasi della sua presenza, aveva buttato giù il nome di una loro conoscente, fingendo che stessero parlando di costei, e col tempo aveva del tutto dimenticato sia l’episodio, sia i dubbi che le parole di zi’ Anna avevano suscitato in lei.
Quel giorno era domenica: don Raffaele approfittava di ogni vacanza scolastica per portare con sé la figlia, con vivo disappunto di zi’ Mariuccia, che però si limitava ad esprimere la sua disapprovazione in silenzio, tutt’al più con qualche brontolio e qualche scrollata di testa.
Anche a don Raffaele dispiaceva svegliare a quell’ora la ragazza, ma, come aveva detto, ne aveva bisogno. Faceva il venditore ambulante di ulive da tavola: cominciava il giro da Portici ed arrivava fin oltre Torre del Greco. Più che vendere al minuto, riforniva salumerie, osterie e soprattutto ristoranti, alquanto numerosi su quella fascia costiera: era riuscito a farsi una discreta clientela, molto fedele, come diceva lui, in quanto per nulla al mondo avrebbero comprato le ulive da un altro, nemmeno a regalargliele, anche a rischio di rimanerne senza, perché le sue erano imbattibili per qualità e prezzo!
Alla ragazza non dispiaceva affatto andare con il padre; anzi, ci andava con piacere. A parte lo svegliarsi all’alba, il suo compito non era certo gravoso: si trattava di far da guardia al carro, mentre il padre portava le ulive richieste ai clienti. A don Raffaele infatti era capitato spesso di sorprendere ragazzi (e a volte non solo ragazzi), che, approfittando della sua assenza, si servivano con le proprie mani, pronti a scappare appena lo vedevano avvicinarsi.
Ad Emma piaceva andare a Portici, perché le piaceva molto il mare. Quel giorno poi, domenica, si sarebbero recati addirittura al porto! Com’era bello vedere dondolare sull’acqua verde scura barche e pescherecci! Erano le sue navi, su cui tante volte sognava fantastici viaggi avventurosi, in compagnia dei cugini, unici suoi compagni di giochi, che nella sua fervida fantasia vedeva già grandi e con la pelle cotta dal sole, proprio come gli uomini che tante volte aveva visto armeggiare su quelle imbarcazioni!
Appena era sveglia, immancabilmente il suo pensiero andava al porto e alle sue barche; le sembrava già di avvertirne, forte nelle narici, il caratteristico odore salmastro e catramoso e, dolce nelle orecchie, il rumore dello sciabordio delle onde basse e tranquille di quel pezzo di mare imprigionato dal piccolo molo.
Si alzò quindi con piacere, dirigendosi svelta al bacile di ferro porcellanato che la madre aveva provveduto già a colmare di acqua tiepida (cosa che aveva fatto di nascosto perché il marito era contrario; – Niente sveglia come l’acqua fredda, inverno o estate che sia! – soleva dire più che convinto); si lavò ben bene e, mentre s’asciugava, si recò su per la scala di legno alla camera da letto, dove, aperte le ante dell’armadio, rimase per un attimo indecisa sul vestito da indossare, ma zi’ Mariuccia, che la seguiva passo passo, decise per lei: senza pensarci su tanto la coprì di panni caldi e pesanti, che avrebbe poi eventualmente smesso più tardi, una volta che la temperatura fosse diventata più mite.
Don Raffaele intanto nel cortile preparava il suo carro. Dopo averlo spostato dal muro e collocato quasi al centro del cortile, andò alla stalla a prendere il cavallo, di cui andava molto fiero: bello e forte, sebbene ormai piuttosto vecchio, bianco, con poche macchie più scure sparse per tutto il mantello, simili a grossi nei: nella scala dei suoi affetti, veniva subito dopo Emma e la moglie.
– Non lo vendo, nemmeno se mi dai tutto l’oro del mondo – rispondeva deciso a chi, spesso per burla, gli chiedeva quanto volesse per quel suo ronzino, ormai pronto per il macello.
Sistemato l’animale al carro, come ogni mattina, collocò i catini di legno colmi di ulive su due file, sempre con la stessa disposizione; nello spazio che rimaneva al centro, rispettando un ordine preciso, che era sempre lo stesso, sistemò poi tutto ciò che gli serviva per la vendita: bilancia, carta, colini vari, lasciando libera solo la parte anteriore del carro, dove pose dei sacchi su cui si sarebbe seduto, con i piedi penzoloni, proprio dietro al cavallo, quasi a toccarne la coda.
Terminate tutte le operazioni, che eseguiva con successione automatica, come un operaio alla catena di montaggio, con la schiena poggiata ad una ruota prese dalla tasca e accese la pipa di terracotta, che aveva l’abitudine di caricare ben bene ogni sera prima di andare a letto e che avrebbe tenuto stretta tra i denti per tutta la giornata, accesa o spenta che fosse.
– Andiamo? – gridò ad un tratto, dopo aver aspettato solo pochi minuti, volgendosi verso la porta, da cui proprio in quel momento stavano uscendo le donne. Zi’ Mariuccia portava, piegata su un braccio, una pesante coperta che aveva tolto dal lettino della figlia.
– Addirittura una coperta! – esclamò stizzoso e ironico don Raffaele – Fra mezz’ora ci sarà un sole che…
– Fra mezz’ora se la toglierà! Nel frattempo la terrà ben calda! – replicò la moglie, interrompendolo.
Don Raffaele, sbuffando, prese la ragazza per le ascelle, la issò e l’adagiò sul carro, dove aveva preparato un po’ di spazio accanto a sé; salì a sua volta e, mentre zi’ Mariuccia continuava la litania, come diceva lui, delle raccomandazioni, fece schioccare la frusta: il bel cavallo bianco al comando avanzò pronto, ma lentamente, quasi consapevole del lungo viaggio che l’attendeva.
La modesta casetta di don Raffaele era tra le ultime del paese, oltre le quali un sentiero stretto ma carrabile, subito dopo uno spiazzo di terra battuta, portava in campagna, inerpicandosi su per le pendici del Monte Somma, per ridiscendere poi a valle, confluendo nella strada che portava a San Sebastiano. Don Raffaele era solito prendere quel sentiero, sebbene a tratti angusto e pieno di buche, che mettevano a dura prova la robustezza del carro e la forza del cavallo, perché così evitava di attraversare tutto il paese, guadagnando un bel po’ di strada. Ma non sempre poteva servirsi di tale scorciatoia; era sconsigliabile infatti farlo nelle piovose giornate d’inverno, perché alcuni tratti erano spesso soggetti a smottamenti o si allagavano facilmente; ed era effettivamente rischioso avventurarsi per quel sentiero in quelle condizioni: non si sapeva mai se il terreno avesse sopportato il peso del carro o cosa potesse nascondersi sotto il pelo dell’acqua: magari un grosso sasso sceso giù dal monte, che avrebbe potuto creare seri problemi ai preziosi stinchi del cavallo, com’era capitato alcuni anni prima ad un suo amico, che fu costretto a vendere il cavallo azzoppato per carne da macello e che per puro miracolo non ci rimise le penne anche lui, in quanto il carro solo per un pelo non andò a finire in una scarpata.
Ma ora la brutta stagione era passata e, appena sboccò dal vicolo, don Raffaele girò a destra, guidando deciso il cavallo verso la campagna.
Emma aveva sperato fino all’ultimo che il padre svoltasse il carro verso il paese, ma quando vide il cavallo puntare al sentiero, si avvicinò maggiormente all’uomo, che, accortosi di ciò, la guardò con tenerezza, sorrise e le mise un braccio attorno alle spallucce, attirandola a sé. La ragazza si rincuorò un po’, ma, nonostante fosse ormai chiaro, quel sentiero le faceva sempre paura, soprattutto quel tratto più stretto, dove le chiome degli alberi dell’una e dell’altra sponda si intrecciavano, formando una verde galleria, ma così bassa, che dovevano a volte chinare la testa per scansare i rami, e così fitta, che anche in pieno giorno impediva il passaggio dei raggi del sole; figuriamoci poi a quell’ora: sembrava notte! A differenza dei suoi coetanei, per i quali non esisteva posto migliore per i loro giochi e le loro scorribande, Emma non era stata mai capace di allontanarsi troppo dalle ultime case del paese: se non riusciva a convincere i suoi cugini a tornare indietro, o rimaneva sola nello spiazzo a guardare svolazzare i panni stesi al sole o faceva ritorno a casa.
Superato quel tratto e attenuata un po’ l’apprensione, cominciò a gustare di più lo spettacolo della natura primaverile: com’era bella quella grande distesa per lo più di fiori bianchi, quelli degli albicocchi, i più numerosi, nella quale però qua e là si distingueva anche la macchia rosa degli alberi di pesco!
Ma emise lo stesso un sospiro di sollievo, quando s’intravide attraverso gli alberi fioriti la scura striscia della strada provinciale lastricata con nere pietre vulcaniche: il brutto era passato! Tra non molto, dietro al monte Somma, sarebbe apparso a poco a poco il cratere del Vesuvio, col suo pennacchio che il vento a volte spingeva verso il mare, a volte verso l’interno.
C’era un posto che le era particolarmente caro: appena dopo San Sebastiano, la strada saliva su un poggio; da lì il panorama si allargava ed era possibile ammirare, anche se per breve tempo, uno scorcio bellissimo del golfo napoletano: un verde e luccicante triangolo di mare e in mezzo al mare un’isola che sembrava galleggiare sull’acqua spumeggiante come una enorme nave, con la prua rivolta verso il largo.